L’Età di Re Ferdinando

L’Età di Re Ferdinando

Far luce sulla “leggenda nera” costruita, negli anni, ai danni di Ferdinando II di Borbone e allo stesso tempo “…offrire un omaggio e un incitamento alla speranza agli uomini e alle donne della nostra terra” affinché seguano l’esempio degli avi che “…provarono a costruire una società fondata sul rispetto della dignità umana, sulla capacità di fare, sulla fedeltà della parola data, sulla necessità di trovare dignitosa realizzazione professionale sul suolo natio”. Questo vuole rappresentare il volume L’Età di Re Ferdinando, a cura di Francesco Maurizio Di Giovine, dato alle stampe dalla casa editrice partenopea Controcorrente (€ 14,00). Sì, perché i trent’anni di regno, dal 1830 al 1859, del reale della casa borbonica, sostiene Di Giovine, furono segnati da uno sviluppo industriale, demografico e civile che sembrava aver gettato le basi per una crescita di più ampio respiro. Ferdinando II affiancò infatti a “…una borghesia agraria, di origine murattiana, fortemente restia all’impiego di capitali per la modernizzazione dell’agricoltura, una piccola borghesia artigianale e imprenditoriale, autoformatasi negli anni della restaurazione, ma ancora priva di capitali ingenti”.

Il sovrano fu in grado di sviluppare un’industria pubblica pesante “…per addossare allo stato gli alti costi degli impianti”. Marina mercantile, marina militare, industria tessile, industria meccanica e industria siderurgica furono i principali settori interessati dall’ondata di sviluppo, seguito alla politica ferdinandea, che si poneva come obiettivi  …il miglioramento del sistema di vita interno e l’affrancamento della Nazione napoletana, attraverso l’ammodernamento delle strutture produttive”. Grande impulso, legato anche al forte incremento demografico, visse l’industria tessile che permetteva, tra l’altro, alle madri di bambini “…di svolgere un’attività produttiva presso la propria abitazione e al tempo stesso di accudire i piccoli, che altrimenti le avrebbero obbligate a rinunciare al lavoro, non permettendo l’entrata in famiglia di ulteriori proventi finanziari”. Sono gli anni in cui nel Salernitano si concentra l’industria tessile: a Fratte opera la società Zublin & Zellinger; ad Angri è attiva la filanda di Giulio Zublin, con trecento dipendenti; cinquecento sono gli operai impiegati nello stabilimento del principe Ottavio Piccolellis, a Scafati, solo per citarne alcuni. Durante il regno di Ferdinando II, un sapore particolare acquisì il borgo di Santa Lucia, con le figure tipiche dell’ostricaro e dell’acquaiolo. I luciani, che restarono sempre fedelissimi al sovrano, “…formavano una comunità particolare”, e seppur “…fieri di appartenere al piccolo mondo che nasceva e terminava nell’angolo di golfo su cui si affacciava Santa Lucia”, tuttavia “…non furono mai un corpo separato della città. In tutti i momenti di calamità naturali che colpivano Napoli, si dimostrarono sempre generosi, affabili, disinteressati”.

La copertina

La copertina del libro di Francesco Maurizio Di Giovine,

Nel 1832, Ferdinando II sposò Maria Cristina di Savoia, la quale si rese “…promotrice di azioni socialmente utili per il suo nuovo Paese”. A lei, ad esempio, si deve l’ammodernamento dell’allora colonia di San Leucio, le cui stoffe raggiunsero ben presto il successo. Nel 1836, però, la “regina santa” morì, dopo aver dato alla luce l’erede al trono. Spinto dalla corte, allora, Ferdinando sposò in seconde nozze Maria Teresa d’Austria, dalla quale ebbe dodici figli. Harold Acton descrive la vita della famiglia reale “…fra i due sposi esisteva un profondo affiatamento e la regina, che era tanto religiosa quanto prolifica, parlava il napoletano con straordinaria facilità, sebbene non riuscisse ad arrotare le erre e conservasse uno spiccato accento teutonico. Entrambi preferivano Caserta alla capitale. Durante i mesi estivi, passavano da Gaeta a Ischia e al palazzo di Quisisana, sopra Castellamare, dove la semplicità della loro esistenza si avvicinava a quella d’una qualunque famiglia di ricchi commercianti”. Ferdinando II di Borbone fu, dunque, un principe napoletano in tutto: si esprimeva in lingua napoletana e siciliana “…affinché tutti potessero ascoltarlo e comprenderlo”, la sua mensa non era sfarzosa “…il piatto tipico era rappresentato dai maccheroni. Ghiotto di baccalà, gustava il soffritto e la caponata. Vero cultore della cipolla cruda, ne mangiava ogni giorno convinto delle sue proprietà benefiche”.

Un volume, quello di Francesco Maurizio Di Giovine, dall’agile veste, che ripercorre “…come in un lungo viaggio, i trent’anni di regno del più grande, ma anche del più ingiustamente vituperato sovrano di Napoli. – si legge in seconda di copertina – Anni duri di fermenti, di speranze e di ottimismo, deliberatamente soffocati nel 1860-61 dalla piemontizzazione forzata, che alimentò la falsa leggenda di un Sud arretrato e sottosviluppato”. 

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